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La casa della poesia

Recensione a “Quinta dimensione. Poesie scelte 1958 - 2018” di Corrado Calabrò


La prima impressione che ho avuto dalla lettura dell’antologia di poesie “Quinta dimensione” di Corrado Calabrò, libro che raccoglie in parte la sua ampia produzione poetica dal 1958 ad oggi, è quella di limpidezza e profondità. Una metafora per sintetizzare la sua poesia è quella che rimanda alla trasparenza e, appunto, alla profondità del mare. Certamente il paesaggio di aspra e luminosa bellezza della Calabria è per il poeta “paesaggio interiore”. È il poeta stesso a dichiarare “in mare non ho mai avuto paura; addirittura avverto una sorta d’attrazione a finire la mia vita in mare”. [1]

Tuttavia, come ha ben messo in luce Carlo Bo “il mare che riassume tutte le sue ansie e le sue aspirazioni è un mare senza nome, è la voce eterna della nostra esistenza”[2]

Portare il lettore a riflettere sugli interrogativi fondamentali della nostra esistenza, andando oltre la mera apparenza delle cose, cercare di fare luce sul mistero in cui siamo immersi, è compito della letteratura (e delle arti in generale) e della scienza. Corrado Calabrò, sin dalla prima lettura delle sue poesie, riesce a catturare l’attenzione grazie appunto al suo dettato poetico, dove chiarezza e profondità, unite ad una musicalità costante, inducono a soffermarsi sui versi, a pensare, Questa, insieme a quella limpidezza di cui ho scritto sopra, è una rara prerogativa di poeti e scrittori che sono o sono stati anche matematici e fisici o che comunque hanno approfondito le loro conoscenze in ambito scientifico. Penso, solo per citarne alcuni a Lucrezio, a Dante, a Goethe, a Musil, a Borges, Lewis Carrol e, poi a Calvino, Levi e Sinisgalli. Calabrò ha infatti una vasta cultura, che spazia dalla letteratura alla filosofia alla fisica e all’astrofisica (e quindi alla matematica). Il profondo interesse per le cosiddette “scienze dure” ha certamente influito sul suo “ποιείν”: ad avere “un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose” [3]. Il fisico e narratore Carlo Rovelli scrive “la condizione umana non viene esplorata solo attraverso leggi scientifiche, ma è esplorata dai concetti filosofici e soprattutto tramite categorie della narrativa e della poesia che distillano e coagulano, trasfondono e uniscono la comprensione e l’intuizione, il sapere e il sentire”.[4] Non può dunque esserci innaturale frattura tra scienza e poesia.

Il titolo dell’antologia “Quinta dimensione”, quell’ “altrove” analizzato con acutezza nel saggio di Fabia Baldi a cui si rimanda,[5] appartiene alla fisica ed è legato alla rappresentazione di un modello di buco nero a forma di anello realizzato da un team di matematici e fisici di Cambridge che esisterebbe, appunto, in un uno spazio pentadimensionale e che stravolgerebbe completamente la teoria della relatività generale. Credo che nel dare il titolo a questa sua antologia Calabrò abbia pensato anche a questo modello, perché il poeta, come lo scienziato, è spinto da una forte tensione alla conoscenza, è dotato di una grande creatività che lo porta a immaginare, scoprire e ricostruire il nostro universo e altri universi possibili, ad esplorare con la mente l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, il visibile e l’invisibile. Nel poema di seicento versi che apre la raccolta, intitolato Roamig, che dà appunto l’idea del vagabondare ma anche dello spaziare, il poeta conduce il lettore in un viaggio tra passato, presente e possibile futuro, dove il piano temporale e spaziale sembrano confondersi, rovesciarsi per finire, appunto, in una dimensione “altra”; la terra potrebbe, per effetto dell’impatto di un asteroide sulla luna, cambiare la propria orbita “e se la Terra fosse deragliata/dalla sua orbita? C’è la deriva /impercettibile del continenti/ e c’è quella delle galassie./ Perché ci dovrebbe atterrire / la deriva del nostro pianeta?”. Un pianeta che vagherebbe confuso e disperso nell’universo. Il senso di spaesamento che si avverte leggendo questi versi, dove la quotidianità viene stravolta (“Che giorno è? Il 22 dicembre./ l’orologio fa le cinque e mezza/ma non può essere l’ora solare:/ albeggia e questo nemmeno Giosuè/ sarebbe stato capace di farlo” “Ho avuto un lieve capogiro, alzandomi./Ruota il letto con l’asse della Terra/ come in un quadro di Picasso giovane”), si confonde con eventi tragici avvenuti in passato, come il terremoto che distrusse Reggio Calabria e Messina nel 1908, provocando decine di migliaia di morti o il maremoto del 2004 che distrusse una vasta area del Sud Est Asiatico, o l’eruzione del Vesuvio del 79 a.C., nella quale perse la vita Plinio il Vecchio “Plinio scriveva, solo sulla tolda,/finché non rimase soffocato./ Non si scrive per i contemporanei/né per i posteri e nemmeno/per noi, ma per un altro se stesso”. In questi ultimi versi il poeta sembra volerci dire che lo scrivere poesia ha una profonda correlazione anche con la dimensione del sogno e dell’inconscio, quell’ “altro da sé” che alberga in ognuno di noi. Il sogno è un altro topos che troviamo nel libro: cito l’intensa poesia “Mi manca il mare”, che nella folgorante brevità racchiude il senso profondo del sogno, la sua importanza nella vita del poeta, legata a quella del mare: “Se non sognassi non avrei un passato/Non appartiene al navigante il mare/che ha solcato/Non trattiene chi nuota/altro che il sogno/del mare che ha abbracciato”. Nel saggio che chiude l’antologia, il poeta ci offre una bellissima definizione di poesia: “la poesia è come un sogno che dica e non dica, ma che (come certi sogni in prossimità del risveglio) ci lasci l’impressione di una rivelazione immanente”.

Legata all’importanza del sogno nell’esistenza di ognuno di noi, c’è quella che il poeta dà al mito, campo di interesse anche della psicoanalisi a partire da Freud. “Il mito esplora i recessi, il lato oscuro dell’animo umano, come neanche la psicanalisi ha saputo fare, millenni dopo” [6], scrive Calabrò e ancora afferma “i miti greci s’intessono nella mia poesia con una spontaneità irresistibile, fornendo alla contemporaneità un ordito senza tempo che diventa l’ordito occulto del mio tempo”.[7]

Un esempio significativo di questa affermazione è il poemetto “Il vento di Mykonos”, dove passato e presente, sogno e realtà si alternano e s’intrecciano con ritmo incalzante, scanditi dal soffiare incessante del vento che impone la sua forza, senza distinzione, alle cose, agli animali e agli esseri umani: il vento che “ stormisce nelle sartie/con rumore assordante”, “ che strappa ciuffi di peli alle capre”, “che scompiglia le penne ai gabbiani” e “arruffa i capelli alle ragazze/ed ai ragazzi dalle lunghe chiome”. Il mito di Arianna e Teseo è nei versi del poemetto metafora dell’amore, amore che è passione intensa e totalizzante, condizione del corpo e dell’anima da cui non si torna indietro: “L’aveva abbindolato con un filo/per condurlo con sé nel labirinto/nel quale l’amore si ritrae:/tanto più in là si ritrae, mano a mano,/quanto più fiduciosi ci s’addentra./La verità è che il filo ha un solo capo/e che il labirinto è senza uscita”. Sempre nello stesso poema il poeta richiama il mito di Ulisse: il viaggio è un ritorno alle radici, ai ricordi d’infanzia che sono “soggetti anch’essi a un’occulta subsidenza”, come la casa materna: “Riuscii a dissimulare per un anno/a me stesso che mia madre non c’era (…) Così seppi che s’era abbassata/ la soglia della casa della mamma/e ch’era sceso di due metri il luogo/dove ogni anno, ad agosto, m’aspettava”. Il ritorno alla terra d’origine rivela un senso di amara nostalgia: “Ma più d’Itaca è dura la Calabria/madre severa verso i propri figli”.

La “quinta dimensione” è per Calabrò anche (e mi sembra soprattutto) quella dell’amore, che è tensione al possesso totalizzante dell’“altra da sé”, passione che si accompagna all’avventura dell’inconoscibile, del mistero e quindi al rischio, come nel poemetto “L’esorcismo dell’Arcilussurgiu”, dove ogni immagine è permeata da un alone di magia e mistero; amore che diventa tormento quando il desiderio di possesso della persona amata è così forte da renderci vulnerabili, fino alla possibilità di distruggerci “come una lama nel miele/affondi nel cuore il tuo sguardo”; amore che spesso cela insicurezza, ricerca di stabilità dietro tenerezza e affetto “L’amore ha di questi mancamenti ./ sento il tuo sguardo perdere colore/come il grigiore inverna l’azzurro/certi giorni metallici di marzo. Non starò a calcolare la distanza, /differenziale che per te mi manca”; amore come unica dimensione in cui sembra possibile ritrovare se stessi “Ogni giorno mi manchi; e in ogni dove/perché all’assenza di te/ non c’è un altrove”. Amore che, come afferma il poeta è “principale porta della poesia”.

Molto ci sarebbe da dire ancora della poesia di questo autore, anche sulla forma, sulla capacità di passare da componimenti che hanno la lunghezza di poemi, senza cadute, senza mai perdere la tensione del verso e l’intensità dell’immagine, a componimenti brevissimi, di due o tre versi ricchi di forte impatto visivo ed emotivo, come nella sezione dell’antologia intitolata “Dimmelo per sms”.

Corrado Calabrò è un poeta che sa condurre il lettore in quella “quinta dimensione” di cui forse davvero solo la poesia può varcare la soglia.


Laura Garavaglia


[1] L’Altrove nella poetica di Corrado Calabrò, F. Baldi, Aracne, 2019 [2] Ibidem, Carlo Bo, Prefazione a Rosso d’Alicudi, Mondadori 1992 [3] L’altrui mestiere, Primo Levi, Einaudi, Torino, 2006 [4] Carlo Rovelli, L’Ordine del tempo, Adelphi, 2017 [5] L’Altrove nella poetica di Corrado Calabrò, F. Baldi,Aracne, 2019 [6] L’Altrove nella poetica di Corrado Calabrò, F. Baldi, Aracne2019 [7] Ibidem


Corrado Calabrò "Quinta dimensione. Poesie scelte 1958-2018", Mondadori, 2018

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