Un linguaggio fastidiosamente semplice, quasi scarno, a tratti banale, certamente quotidiano.
Assenza di personaggi: un io celato e un tu che, se anche prende forma di madre, o di Anna, o dell’altra parte del Noi, manca completamente di definizione e la sua esistenza è interamente subordinata alla voce narrante che lo accenna flebilmente per dire altro.
Luoghi sfiorati, bui, lasciati deserti, visti in transito.
E c’è latenza anche della strutturazione in versi, tradizionalmente intesa, a favore di un verso libero sbottonato all’occhio languido della prosa.
Tutte queste mancanze fanno vibrare di ansia, creano un inspiegabile magone, un qualche disturbo, e più si cerca di capire cos’è e da dove è comparso, più appare evidente come Noemi De Lisi sia riuscita a portarci, senza avviso, dentro la sua stanza vuota.
Generare il senso di qualcosa senza nominarlo è abilità di pochi. De Lisi ci riesce.
La stanza vuota, antologia composta da tre gruppi di componimenti (Io e mia madre; Io e Anna; Noi) è un viaggio attraverso e diretto al vuoto che, partendo da un spazio concreto lasciato fisicamente spoglio e privo di ciò che prima lo caratterizzava e lo rendeva luogo, si sposta verso la necessità ineluttabile di riflettere e vivere la nuova condizione di vuotaggine e che, alla fine, ritorna allo spazio vuoto originario, ora coperto di un senso nuovo, non meno doloroso ma più consapevole.
“In fondo al lungo corridoio di penombra, senza voci, c’era/ la stanza vuota./ La casa era vecchia, non era manco nostra: soli io e mia/ madre l’abitavamo./ «Sei stato fortunato a nascere qui, figlio mio», mi diceva/ battendosi il petto/ mentre io annuivo e strizzavo la faccia in un sorriso come/ mi aveva insegnato./ Sempre passavo davanti alla stanza vuota: tutto era fermo,/ antico, impolverato./ Qualche volta ci trovavo dentro mia madre. Stava seduta/ sul letto rifatto/ il capo chino, le mani intrecciate sul grembo. Subito facevo/ un passo indietro/ per non farmi vedere, mi appoggiavo alla parete e lei/ piano piangeva:/ «Ora, mamma, perché te ne sei andata? »/ Poi mi allontanavo in punta di piedi e facevo finta di non/ averla sentita.”
La morte è, prima di tutto, una stanza che resta vuota, come straordinariamente aveva descritto anche Pirandello in Di sera, un geranio; solo dopo diventa esplosione di dolore e tentativo di comprensione, passaggio obbligato tra depressione e cambiamento. Infine, però, essa torna a essere quella stanza vuota, con cui ci si dovrà confrontare in eterno.
Ed è morte, si sa, ogni fine, ogni avvenimento avvertito dal soggetto come perdita, come interruzione. De Lisi ci trascina in ognuno di questi baratri con la forza dirompente della parola che, se sapientemente usata, anche nella sua forma più glabra, è in grado di scuotere mondi e menti.
L’autrice ci agita, non c’è dubbio, ed è questa la pienezza della sua opera: La stanza vuota, Giuliano Ladolfi Editore 2017.
Noemi De Lisi, nata a Palermo nel 1988, è laureata in Giornalismo e in Teorie della comunicazione all’Università degli studi di Palermo. Nel 2015 è inserita nell’antologia “Post ‘900. Lirici e narrativi” (Ladolfi) con una prefazione di Carlo Carabba. Nel 2016 è finalista al Premio Rimini. Nel 2017 esordisce con “La stanza vuota” (Ladolfi) con una prefazione di Giulio Mozzi. È redattrice della rivista Atelier on-line. Suoi racconti e poesie sono apparsi su Atelier (con una prefazione di Giovanna Rosadini), Nuovi Argomenti, Nazione Indiana, Vibrisse, Parco Poesia e altre riviste e blog.
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