Condividiamo l'intervento di Corrado Benigni su La Repubblica - Milano.
Il suo libro "Tempo Riflesso" ha vinto il Premio Internazionale Europa in Versi 2018.
La poesia non è morta, ma sopravvivrà se saprà accettare la sfida di contaminarsi con altri linguaggi. Linguaggi artistici, certamente, ma anche apparentemente lontani, come il gergo del diritto e della scienza, per esempio.
Perché la poesia non esiste in sé, ma forse è il più artificiale dei linguaggi umani. Non ci sono nel vocabolario parole che non possano essere usate in poesia; la sfida è saperle ricombinare in una relazione "di suono e senso".
Si dice che il poeta è il custode della lingua. Oggi quel custode non può non rilevare la sciatteria nell'uso comune della lingua. Talune volte questo impiego distorto rischia di riflettersi anche in poesia, che invece dovrebbe essere il luogo dove la parola si rigenera.
Questo perché sempre più spesso anche la lingua della poesia sembra ripiegarsi sulla dimensione comunicativa, limitandosi ad attingere i propri lemmi dal lessico del parlato quotidiano o servendosi direttamente dal bacino lessicale di altra poesia.
Dunque, verrebbe da dire che non solo i poeti, ma la lirica stessa oggi è divenuta autoreferenziale, creando così una sorta di corto circuito.
E sotto questo aspetto l'ammonimento di Cesare Viviani è fondato. Tuttavia penso che per rigenerarsi continuamente e per continuare a sopravvivere come lingua-custode, la poesia debba mettersi in discussione, mescolarsi con altre discipline.
Pensiamo al linguaggio del diritto, dalle straordinarie potenzialità creative, capace di incidere sulle vite delle persone. Molti termini gergali, ben aldilà del loro impiego contingente e normativo, hanno in sé la capacità di esprimere concetti metafisici, di modo icastico la condizione dell'uomo (ciò di cui alla fine ogni poesia deve occuparsi): penso a parole come sussumere, testimone, patteggiare, contumacia, che accostate a campi semantici diversi creano effetti linguistici inaspettati e nuove aperture di senso.
Persino la storica "Rivista di diritto processuale", fondata da Piero Calamandrei nel 1924, dedica recensioni a libri in versi, a conferma ancora una volta che la percezione del cattivo stato di salute della poesia spesso è più di chi la scrive che di chi la legge.
Affascinante è anche il dialogo tra poesia e fotografia: due linguaggi che utilizzano come materia prima le immagini, che non si esauriscono in se stesse ma sono capaci di rivelarci qualcosa in più rispetto a quello che sembrano significare.
l confronto tra fotografia e poesia induce a riflettere su una forma di pensiero fondamentale per l'uomo: l'immaginazione analogica, ovvero la capacità straordinaria di percepire somiglianze anche tra elementi opposti, che è la vera potenza della poesia.
Perché non c'è pensiero senza un momento poetico. Dunque, se affermiamo che la poesia è morta, stiamo dicendo che anche il pensiero umano è morto. E non mi sento di dirlo.