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Mario Santagostini

"Leggere i grandi autori è un apprendistato che non finisce mai"


Mario Santagostini è nato a Milano, dove ha sempre vissuto, nel 1951. È poeta e critico letterario. Ha pubblicato varie raccolte di poesie: l’ultima, per Mondadori, “Felicità senza soggetto”. Ogni anno, al Festival Europa in versi, tiene la “Bottega di poesia”, offrendo gratuitamente pareri a tutti coloro che, tra il pubblico, scrivono poesie e desiderano avere suggerimenti e consigli sul proprio modo di scrivere.

Anche quest´anno a Europa in versi Lei terrà la Bottega di poesia: chi vorrà potrà chiederle un parere sui propri versi. Qual ė il "popolo" della poesia?

Non credo che esista un “popolo della poesia”. C’è gente che scrive, che ha voglia di esprimersi in versi. Che qualche volta dovrebbe leggere e rileggere i grandi autori, contemporanei e non. L’esperienza del leggere, secondo me, è la più importante e, qualche volta, trascurata. In realtà, scrivere poesie e concentrarsi su quelle degli altri sono due facce di una specie di apprendistato che non finisce mai.

La poesia sui social network: qualità o spazzatura?

Non frequento molto i social. Una volta ho assistito a uno scambio di opinioni tra chi postava il verso di un grande autore contemporaneo e chi contro-postava i versi di un altro autore contemporaneo, decisamente e “istituzionalmente” meno grande. Poi è arrivato un terzo che sosteneva che il secondo autore era, a suo parere, più bravo. Poi un quarto che diceva il contrario. Così, di passaggio in passaggio, un grande autore è stato messo sullo stesso livello di uno infinitamente inferiore: azzerato o quasi. Questo è un esempio del social-tritacarne, secondo me: una democrazia dei lettori oscillante, fittizia e, per dire una parola che adesso usano tutti, liquida. Fondata non sulla lettura reale ma sul “secondo me”, sul “mi piace”, sul “io me lo sento così”. Il secondo aspetto brutto sta nel fatto che, attraverso i social, scattano forme di spontaneismo narcisistico e di autopromozione prepotente e incontrollabile. Chi impedisce a chi di etichettarsi come iniziatore di movimenti, scuole, tendenze e pescare subito chi lo riconosce tale? Chi impedisce a chi di fare del proselitismo? Nessuno. Certo, la storia della letteratura dovrebbe aggiustare le cose, ma con i social di mezzo ci mette più tempo. Se poi ci riesce davvero, cosa di cui comincio perfino a dubitare.

Quali sono i temi affrontati oggi dai poeti esordienti, in particolare i giovani?

I temi alla fine sono sempre uguali: l’amore, il mondo che fa schifo, l’ambiente che degenera, la solitudine, le isole di affettività non inquinata. Con una specie di errore di fondo: pensare che se il “tema” è importante, anche la poesia lo sia. Scrivere di ecologia non vuol dire scrivere bene di ecologia… C’è una lingua di mezzo che va conosciuta, ascoltata, sfruttata. Tenendo conto, sempre, che qualcuno l’ha già usata meglio di noi. Non succede sempre.

In Italia si scrive molto e si legge poco: è compromessa la salute della poesia?

Ma è sempre stato così!. La prima edizione degli Ossi di Montale ci ha messo anni e anni per vendere 2000 copie. In fondo, scrivere è sempre sembrato più facile. Scrivere poesie, ancora di più. Ma non è stato compromesso niente. Non ancora, almeno.

In America latina o in Turchia, ad esempio, i festival di poesia riscuotono un grande successo di pubblico. Perché in Italia non è così?

Il dubbio che mi viene, riprendendo il discorso dei social, è che anche “da noi” è così: se un poeta (o un musicista, un pittore, chiunque…) vuole avere davanti un pubblico-massa che lo nota e applaude, apre un blog e si fa notare e applaudire. Il problema non è mai il pubblico, ma la qualità dei versi. Lo dico in modo provocatorio: credo che un autore serio il giudizio non va a cercarlo in un reading virtuale o reale dove, si sa, il consenso è determinato anche (o soprattutto) da variabili che non sono i testi, ma le qualità performative di chi legge. Va a cercarselo, se ha buon senso, nel parere, nell’eventuale adesione di quelli che sente come maestri, modelli, autorità. E’ lì che arriva il redde rationem, alla fine.


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